Addio a Franco Battiato, cantore di mondi lontanissimi
“Il mio maestro mi insegnò quanto è difficile trovare l’Alba dentro all’imbrunire”. Con uno dei suoi versi più rappresentativi va ricordato Franco Battiato, nel momento del suo passaggio. Non aveva remore, Lui, a raccontare che “Prospettiva Nevski” non gli apparteneva, gli era stata suggerita. E che la vita era soprattutto un percorso di conoscenza. Che così l’abbia vissuta sino in fondo, ce lo dice la sua arte. Non solo musicista e poeta. Ma regista, scrittore, pittore. Mai banale, il suo album “La Voce del Padrone” risulta ancora oggi tra i più venduti di tutti i tempi nel nostro paese. Un capolavoro riconosciuto, ma non abbastanza. E non poteva esserlo. Coniugare la musica pop e Gurdjieff, milioni di persone a cantare di un “Centro di gravità permanente”, aprire varchi, linguaggio per tutti, comprensibile a pochi.
Che l’essere umano fosse, in potenza, qualcosa di più di quello che raccontavano gli altri, la maggior parte dei “colleghi”, Battiato non ha mai smesso di cantarlo. Gli altri, tra sofferenze amorose, disagio esistenziale e – se andava bene – impegno politico da festival di partito. Lui, tra le aquile che non volano a stormi, ma cantato e imparato a memoria da tanti. Lo iato tra i suoi testi e quelli del resto del panorama musicale italiano si è fatto più evidente con il “progredire” dei tempi, ovvero con l’involuzione dell’arte, in tutte le sue forme, conseguente al declino dell’uomo cui abbiamo assistito negli ultimi 20 anni.
Si dice che Battiato già fosse in un’altra dimensione, da un paio di anni, non solo più consapevole ma meno cosciente. Come dargli torto. Oggi che le case discografiche saccheggiano i talent show in prima serata e che i talenti sono “fabbricati “a tavolino, il vuoto che lascia è ancora più palpabile. Soprattutto ascoltando Tiziano Ferro che canta “E ti vengo a cercare”. Ma si può sperare che quel vuoto andrà riempito, per legge naturale, e che torni “L’era del cinghiale bianco”.
Oltrepassa la soglia di cui aveva detto e cantato, Battiato, nel tempo degli uomini mascherati, in cui il buio è oltremodo visibile e il volto rimane nascosto. E chissà che avrebbe detto, se avesse potuto, sull’epoca della pandemia, della vita ridotta al biologico, dell’uomo schiavo della paura della morte, incapace di rischio, inconsapevole che non vi è più tempo. Lui, ancora una volta un caso raro, che di morte aveva cantato e scritto come nessun altro – l’ultimo album che ci ha lasciato, “Apriti Sesamo”, ne è un esempio – perché senza il senso della morte non vi è vita degna, ma solo incapacità di chiedere a se stessi “come non sprecare il tempo che mi rimane…”. Anche per questo va ringraziato.