Europa, l’unico velo pericoloso è quello dietro cui ti nascondi
La donna con il velo; la donna donata, ceduta, acquistata; la donna nell’harem duplicata, specializzata, massimizzata; la donna costretta, picchiata, incappucciata e lapidata. La narrazione dell’Islam nei talk show politici italiani, da Ballarò alla Gabbia, passa e si sintetizza nel dramma femminile, mettendo sotto alla categoria “società” un problema politico ed ascrivendo lo scontro a questione femminile piuttosto che alla più spinosa e meno popolare questione di ordine mondiale. Il travaso di significati e interpretazioni è motivato da intenzioni propagandistiche, ma soprattutto permette di far passare la logica attraverso lo stretto collo del nostro imbuto culturale. Il trasferimento dà modo di pettinare la guerra e dargli un aspetto garbato, molto Occidentale. Eccoci, dunque, alla civiltà a cui una parte dell’Islam ha dichiarato guerra: l’Occidente che manda avanti le donne per giustificare decisioni che nemmeno necessitano di essere prese, poiché sono già subite.
Il velo che ci deve fare paura non è il burqa, ma quello che vuole nascondere la nostra inconsistenza culturale. Tanto impegno a screditare l’Islam attraverso la condizione femminile descrive un europeo che sta ancora lì a ragionare se sia opportuno o meno dichiarare guerra, come se dalla sua lunga storia non avesse ancora compreso la motivazione profonda per cui la pace è ipso facto precaria: l’amicizia richiede il consenso di almeno due persone, per la guerra ne basta una. Così, mentre la dichiarazione bellica ci veniva confermata con un pacco di tritolo e chiodi, la nostra élite impastava narrazioni lacrimevoli e propaganda. Eppure quest’europeo, sempre così attento ai temi sociali, non si è accorto che per decenni ha sfruttato degli individui che tra loro condividevano etnia e religione. Insomma, difficile convincerci a prendere nota della guerra, ma abilissimi a convincere diverse decine di islamici a votarsi alla più violenta Jihad.
Possibile che l’europeo non veda altro che questioni di genere? La centralità acquistata dall’organo riproduttivo presso le nostre culture, tale che pene e vagina diventano paradigmi di lettura del reale, è l’espressione di un pensiero che, giunto al punto zero, non riesce a vedere altro che l’oggettività della genetica. Anche di fronte all’evidenza della guerra l’europeo ha bisogno di un racconto che cominci dalle coordinate fondamentali di “mamma” e “papà”: senza un abbiccì infantile non può prendere posizione.
Analisi parziali generano decisioni errate dagli esiti imprevedibili. Nei talk show politici ci si muove tra isteria e impotenza, tra esaltazione e inazione, tra guerrafondai e pacifisti; in ogni caso tra attori le cui visioni del mondo sono esclusivamente visioni del sé. La condizione femminile serve all’odio lùmbard per dare al mondo intero l’espressione del proprio volto rabbioso, ma allo stesso tempo è utile a chi vuole ridurre tutto a questione sociale, ricomponibile grazie ragione all’interno di un tribunale o di un’aula parlamentare. Quello che le due visioni del mondo non possono cogliere – e che per tutelare sé non provano nemmeno a cogliere – è la complessità di un fenomeno che ha cause sociali, identitarie, razziali e ovviamente geopolitiche.
Dietro a tutti i mentucci tremanti e a quei nasi arricciati dallo sforzo della decenza si nasconde un europeo a cui la condizione della donna islamica frega mediamente poco. “Nulla di nuovo”, si dirà, “è solo strategia”. Vero, ma è la strategia dell’uomo annichilito, smarrito, in estinzione; dell’uomo venduto al mercato, al sondaggio e all’urna; dell’uomo che ha rinunciato a capire il vicino purché gli pulisca casa, gli venda il panino e gli garantisca un cellulare ogni due anni. Questa è la strategia dell’uomo con il velo.