Impariamo dalla Camorra
Ho seguito il processo per l’omicidio di Attilio Romanò. Per chi non lo sapesse Attilio Romanò è una vittima innocente della faida di Scampia di qualche anno fa. I fatti: Romanò era nel suo negozio di telefonia, quando fu assassinato dagli uomini del clan Di Lauro che lo scambiarono erroneamente per il cugino di un affiliato alla fazione degli “scissionisti”. Seguendo il dibattimento in aula ho avuto la possibilità di ascoltare la deposizione di un pentito del clan, attraverso la quale si è poi riusciti a far luce sulla vicenda.
Al di là del dato di cronaca ciò che mi preme mettere in evidenza sono aspetti diversi emersi durante questa deposizione. Il collaboratore di giustizia ha spiegato la struttura criminale e l’organizzazione del clan stesso; nella sua deposizione ha riferito di aver iniziato la “carriera” come spacciatore, poi “responsabile” di una piazza di spaccio, fino ad entrare a far parte del gruppo di fuoco. In sintesi, rottisi gli equilibri, il clan ha avuto necessità di rafforzare il proprio braccio armato. Stando al racconto del pentito è avvenuta una vera e propria selezione del “personale” tra gli affiliati al clan.
Mi hanno sorpreso, ma nemmeno troppo, alcuni aspetti che per assurdo bisogna riconoscere ad un’organizzazione criminale: giovane età d’inserimento al mondo del lavoro e meritocrazia.
Sto leggendo l’ultimo libro del giudice Raffaele Cantone; si tratta di una sorta di saggio sulla camorra scritto da chi, per anni, ha combattuto la malavita organizzata, specie quella del casertano. Cantone definisce la camorra come un’Idra, figura mitologica di un mostro a più teste; il giudice sottolinea come sia difficile combattere un mostro sostanzialmente invincibile perché decapitata una testa ne nasce immediatamente una nuova. Di più. Cantone, nella classica contrapposizione Stato-AntiStato, analizzando l’economia malavitosa, specie del casertano, definisce quello camorristico uno “Stato succedaneo” a quello Istituzionale. In pratica, Cantone avverte come l’economia reale possa paradossalmente trarre nocumento da una feroce lotta all’economia malavitosa. La camorra, insomma, crea posti di lavoro.
Ho denunciato qualche anno fa un parcheggiatore abusivo. Mi aveva minacciato gravi danni all’auto per non aver pagato. I poliziotti intervenuti sul posto lo fermarono. Dopo circa un anno sono stato convocato in tribunale, ho atteso diverse ore prima del dibattimento; ai poliziotti, che all’epoca dei fatti avevano proceduto all’arresto, è toccata la stessa sorte. Risultato? La persona da me denunciata “lavora” ancora come parcheggiatore; lo Stato mi ha insegnato che è meglio pagare qualche euro al parcheggiatore che comportarsi da civile cittadino.
A decine tra amici e parenti, fidanzate e conoscenti “brancolano” tra precariato e disoccupazione, molte volte con in tasca una laurea e/o una grande esperienza o preparazione. Conosco imprenditori strozzati dalle banche per crediti mai incassati (o incassati con anni di ritardo) dalle pubbliche amministrazioni.
Si potrebbe andare oltre ad elencare casi simbolici. Episodi che spiattellano una cruda realtà: la nostra democrazia non funziona. Peggio, l’unico modello democratico realmente funzionante è quello camorristico.
Ammetto: sono affascinato dal modello camorristico. Vi ritrovo tutti i principi fondanti la “nostra” democrazia. Pensateci: è fondata sul lavoro; c’è certezza della pena; vale la meritocrazia; ha un sistema di welfare straordinario per affiliati e loro famiglie; crea un indotto economico non trascurabile; c’è il rispetto delle “istituzioni” ecc. ecc.
La Repubblica Italiana sembra fondata sulla burocrazia. Una macchina inefficiente ed inefficace che il cittadino vede nemica e lontana. Un coacervo di norme che complicano invece di semplificare; e ancora l’economia che domina sulla politica. Sembra una frase fatta e riconducibile ai massimi sistemi, ma non è solo così. Facciamo un esempio pratico: un amministratore illuminato che volesse dare un taglio ai costi della pubblica amministrazione, magari tagliando del personale, si ritroverebbe a creare nuova disoccupazione. E così le scelte si rimpallano, si differiscono, si allungano. La nostra democrazia ha, di fatto, perso il potere e la snellezza nel decidere. Quello che, ovviamente, non avviene all’interno di un clan, dove le decisioni sono prese velocemente e sono immediatamente esecutive.
Arrendiamoci e siamo sinceri: chi di noi non vorrebbe una politica capace di decidere, di fare, di incidere… Magari anche di sbagliare, ma di certo non immobile, quando non ingessata. Il sogno democratico non funziona. La beffa è che funziona in quello che ci ostiniamo a chiamare Anti-Stato.
[FOTO di Carmine Savarese]